PRESENTE ALLA GIORNATA CONCLUSIVA DEL FESTIVAL PER RICORDARE LA CUGINA AVE





Figlia di Arnaldo e ultima esponente di una prestigiosa famiglia di attori e registi italiani, Arianna Ninchi è stata una delle protagoniste della X Edizione del Franco Cuomo International Award, che si è svolta il 2 dicembre 2024 a Roma. Il prestigioso riconoscimento, volto a celebrare l’eccellenza in vari ambiti culturali, ha premiato l’attrice per il suo straordinario contributo al “teatro contemporaneo”. Un tributo che sottolinea la sua capacità di innovare e di affrontare tematiche sociali attraverso la scena, consolidando il suo ruolo di protagonista nel panorama culturale italiano.
Il premio è stato assegnato per la capacità di coniugare «tradizione e innovazione» in scena, unendo una solida preparazione artistica a un forte impegno sociale. Durante la lettura della motivazione, Emilia Costantini, membro della giuria, ha evidenziato come l’attrice abbia saputo «restituire forza e presenza a donne indimenticabili», mettendo in luce la sua abilità nel portare sul palcoscenico figure femminili che vanno oltre il tempo, riuscendo a farle parlare anche nel teatro contemporaneo.
Un aspetto fondamentale della sua carriera, che ha catturato l’attenzione durante la cerimonia di premiazione, è stato il suo straordinario impegno nella lettura del Discorso per la lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, un testo di Don Lorenzo Milani. Questo progetto, che l’ha vista protagonista sia nel 1968 alla Biennale di Venezia che nel 2023 al Teatro Cortesi di Sirolo, rappresenta un momento di grande importanza non solo per il suo valore culturale, ma anche per l’intensità e la forza che l’attrice è riuscita a infondere nell’interpretazione di uno dei testi più significativi della pedagogia e dell’impegno sociale italiani.
Questa performance è un chiaro esempio del suo talento: una capacità unica di entrare in sintonia con il messaggio del testo, di farlo suo e di restituirlo al pubblico con una freschezza e una forza che non solo rendono giustizia alle parole, ma fanno anche riflettere su come la cultura, il teatro e l’arte possano essere strumenti di cambiamento e di riflessione sociale. La sua interpretazione non è solo una prova di bravura artistica, ma anche un atto di impegno sociale, che ha contribuito a mantenere viva una delle voci più importanti della nostra storia educativa e civile.
Arianna Ninchi, attraverso il suo lavoro, ha saputo trasformare il teatro in uno «strumento di riflessione e di denuncia», facendo della scena un luogo dove non solo si rappresentano storie, ma si interviene sulla società. La sua carriera è la testimonianza di una «profonda ricerca artistica», che ha saputo esplorare la complessità del mondo femminile e della condizione umana, restituendo al pubblico non solo emozioni, ma anche una riflessione profonda sulla contemporaneità.
IL RICORDO DI AVE NINCHI NELLE PAROLE DI ARIANNA
È a tavola che ho conosciuto Ave!

Proprio così: le nostre presentazioni avvennero tanti anni fa a Bologna, al famoso Ristorante Diana dove, da vera buongustaia, mi aveva invitato a pranzo con il mio babbo.
Fino a quel momento l’avevo vista solo in Tv: per me era la nonnina del sabato dello Zecchino. E da lei mi erano arrivate in dono una foto con dedica, una bellissima bambola e una spilla con la lettera A.
Ho ricordi sfocati di quel pranzo, che poi fu, purtroppo, la nostra unica occasione d’incontro: forse ero troppo piccola o troppo emozionata… Comunque, da lì iniziammo a scriverci con regolarità fino alla fine e mi piacerebbe molto poter rileggere oggi le sue lettere, se non fosse che mia madre che, a differenza mia, si sbarazza delle cose in maniera diciamo… spensierata, le ha gettate con altri souvenir dei miei anni a Pennabilli.
C’è da dire che, se anche avessi potuto prendere qualche spunto dal nostro scambio epistolare, non sarebbe ad ogni modo semplice parlare del pianeta Ave! Già, pianeta: la vip della famiglia Ninchi secondo me può contenerla – per mole e importanza – solo questa parola.
Ha fatto di tutto nella sua strabiliante carriera: teatro, rivista, cinema, Tv, radio, musical, opera, operetta… Non c’è settore dell’industria dello spettacolo che non l’abbia vista impegnata. E non dimentichiamoci la pubblicità, grazie alla quale comprò e ristrutturò l’amata villa in Toscana, a Pomino.
Briosa conduttrice, attrice completa, commediante a 360 gradi, spalla ideale, caratterista di vero peso, insospettabile ballerina, intonatissima, sempre ad altissimo indice di gradimento… Cosa aggiungere ancora?
Beh, forse che ha inventato il nazional-popolare! Entrando nei tinelli di tutti gli italiani, con quel sorriso bonario e contagioso, la riga nel mezzo e i capelli raccolti nello chignon, a scodellare il suo indefesso ottimismo.
E che dire poi della sua filmografia… sterminata! Ha lavorato praticamente con tutti… Con Totò, Anna Magnani, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Walter Chiari, Nino Taranto, Eduardo e Peppino De Filippo, Sophia Loren, Franca Valeri… (una galleria di nomi che fa impressione) passando con disinvoltura dal registro brillante al drammatico, dalle produzioni più raffazzonate al cinema d’autore.
Era nata in Ancona nel 1914. La famiglia (benestante) abitava vicino al porto, quartiere popolare. Lei fu sempre fiera di definirsi “portolotta”. Trasferimenti (il primo a Trieste, città in cui infine tornerà a stabilirsi), rovesci di fortuna (a seguito della crisi del ‘29), ritroviamo Ave quindicenne a Pesaro.
Pesaro fu una breve parentesi nella sua vita, ma fu proprio lei, già intraprendente, a suggerirla: “Avevo quindici anni e non volevo essere povera in una città dove tutti sapevano che ero stata ricca. Convinsi i miei genitori a lasciare Trieste, ci trasferimmo a Pesaro. Ma anche il trasloco era costoso. Guardando i barconi che trasportavano la frutta, mi venne un’idea, i nostri mobili li avremmo caricati lì”. È uno dei tanti ricordi che Ave racconta in Confidenzialmente Ave, il film di Domenico Zandri del 1989 dedicato alla sua lunga carriera.
A Pesaro Ave fu costretta a impiegarsi all’INA (Istituto nazionale delle Assicurazioni) ma si annoiava tantissimo e così alla prima occasione accettò un incarico per conto del Ministero: a quindici anni salì su una Balilla, accompagnata da un autista, per propagandare il risparmio nelle scuole della sua provincia. È stata quella nel pesarese, avete capito bene, la sua prima tournée! Me la immagino già bravissima, nonostante quel copione per lei non troppo convincente… Per fortuna non durò a lungo.
A vent’anni vinse una borsa di studio all’Accademia d’arte drammatica di Roma. Avvenne nella capitale l’incontro professionale della sua vita: quello con Aldo Fabrizi, il suo più grande sostenitore, il suo amico per sempre. Nel 1944, l’esordio al cinema avvenne proprio accanto a Fabrizi nel Circo equestre Za Bum. Negli anni, calandosi a pennello nel ruolo di chiassosa matrona romana, Ave e Fabrizi formarono una celebre coppia del nostro cinema. In molti pensavano lo fossero anche nella vita, ma erano “solo” due pesi massimi (la bilancia non è un’opinione) perfettamente affiatati che, oltre al talento, alla stazza, alla simpatia, alla generosità, avevano in comune anche la passione per la buona tavola.
È sempre accanto a Fabrizi che Ave ottiene, nel 1947, il Nastro d’argento per la sua interpretazione in Vivere in pace di Luigi Zampa. È di nuovo accanto a Fabrizi, e ora anche diretta da lui, quando due anni dopo, nel 1949, vince il suo secondo Nastro d’argento per Emigrantes.
Quando andò a ritirare questo premio, il presentatore si complimentò con lei per la bravura dimostrata soprattutto nelle drammatiche sequenze del parto a bordo del piroscafo. Candidamente Ave disse: “Per carità, per carità, quale bravura! Sono felice di ricevere questo premio e ringrazio tutti, ma vi assicuro che la bravura non c’entra per niente. In quei momenti io stavo morendo sul serio!”
Tutte le scene del viaggio verso l’Argentina, furono infatti girate su un autentico piroscafo per emigranti, il Tucuman, e anche le comparse impiegate erano veri passeggeri, povera gente in cerca di una vita migliore, proprio come i coniugi romani interpretati da Ave e Fabrizi in questo bellissimo film.
Ave aveva già provato l’esperienza della traversata oceanica nel 1939, durante una tournée nell’America del Sud, ma il mal di mare in quell’occasione non lo aveva sentito, forse perché distratta da un incontro… quello con Antonio Gianello, l’amministratore della compagnia. Dal loro amore nacque l’unica figlia, Marina, così chiamata perché concepita durante il viaggio di ritorno.
“Non ho avuto nipoti, mi mancano molto. Ma forse è il mio unico rimpianto, oltre a quello di non aver mai potuto danzare Giselle sulle punte…”
Non aveva avuto nipotini, ma aveva avuto le sue bambole ed erano state per lei delle vere compagne: “Con ciascuna aveva un rapporto intenso, mai banale. Di ognuna immaginava e sognava gli ambienti nei quali poteva aver vissuto dopo essere stata costruita”, scrive il fraterno amico Luigi Veronelli, collega di Ave in A tavola alle 7, il primo programma televisivo dedicato alla cucina in Italia.
Quando riguardo quella stupenda, inglese, di porcellana, che ha regalato a me – unico esemplare superstite della sua amata e preziosa collezione andata perduta – mi piace pensare che un po’ sono stata io la sua nipotina… E forse l’abitudine di trascrivere le parti da studiare su un quaderno me l’ha suggerita Ave proprio attraverso di lei… Di certo, io la custodisco come una reliquia: la tengo adagiata nel suo bianco cuscino, la saluto ogni tanto ma non ho il cuore di giocarci per la paura che ho di romperla…
Non ebbe un nipote, ma ne ebbe migliaia se consideriamo tutti i bambini che la seguivano in Tv. Quanto a quelli in studio… forse erano troppi e troppo scalmanati. L’esperienza allo Zecchino d’oro fu sfiancante. Mio babbo la sentì dire a un bimbo dietro le quinte: “Se non stai zitto ti dò uno schiaffone in faccia!”, glielo disse con il sorriso sulle labbra, ma le intenzioni erano serie, secondo me.
Dopo l’Antoniano, giunse la decisione di ritirarsi dalle scene. Scelse di trasferirsi a Pomino, ma dopo la morte dell’amato Nino decise di tornare a Trieste. Lì si trovò un delizioso appartamento nel cuore della città, proprio sopra il celebre Caffè San Marco, ritrovo di tutti gli intellettuali triestini. Dal suo enorme terrazzo all’ultimo piano godeva di uno stupendo panorama e vedeva il mare. Passava il tempo con molte persone a lei care, con le amiche d’infanzia e con dei cugini.
A Trieste si spense per una grave forma di diabete il 10 novembre 1997. Era un giorno di bora, come ci ricorda la figlia Marina, nel bel libro Ave Ninchi. Una juventina fra teatro e fornelli uscito nel 2004: “C’era un gran vento quel giorno e allora mi piace immaginare che sia stata proprio la sua amatissima bora a portarsela via. Per l’ultimo, definitivo viaggio è venuta a prenderla e l’ha fatta volare. Se n’è andata sicuramente così, salutando me e gli amici e il mondo con allegria, la stessa allegria con la quale ha sempre vissuto e ha fatto vivere chi le stava accanto”.
Al suo funerale, io c’ero. È stata la mia prima volta a Trieste. Quando ci sono tornata per lavoro, tutti mi hanno circondato d’affetto, forse proprio perché nipote di Ave.
La chiamavo zia, anche se in realtà i gradi di parentela fra noi erano di più, essendo mio nonno Annibale e suo padre Umberto cugini.
Spessissimo qualcuno mi avvisa che sta vedendo Ave in questo o quel film. E d’estate, grazie al geniale programma Techetechetè, gli sketch con Bice Valori e i balletti con Don Lurio continuano a far ridere, con intelligenza, gli italiani.
Quando mi capita di dover fare lo spelling del mio cognome a centralinisti al telefono o in giro per uffici, sovente mi sento dire: “Ah, come Ave!” Senza esagerare mi sento di poter dire che il suo ricordo è più che mai vivo nel cuore di tante e di tanti.
Grazie allora per averla ricordata anche in questa bella serata.
Arianna Ninchi