È dal dettaglio di due mani, che tradiscono agitazione e irrequietezza, e da una notizia che cambia la vita che la regista francese Jeanne Herry sceglie di iniziare a raccontare il lungo, complicato, e affollato processo che porta all’adozione di un minore in Francia.
Con una costruzione narrativa che gioca con il flashback, Pupille – In mani sicure illustra dall’inizio alla fine, o forse sarebbe meglio dire da un inizio all’altro, l’iter che un bambino affronta nel momento in cui la sua madre biologica sceglie di non tenerlo con sé. Lo fa senza giudizio, con delicatezza, umanità e permettendo allo spettatore di acquisire una reale consapevolezza su come funziona il mondo dell’adozione, e sulle molteplici figure che intervengono costruttivamente in tale percorso.
Jeanne Herry, complice un cast di attori ispirati e attenti, riesce a far emergere tutta la complessità di una scelta ardua che finisce per celebrare nella sua straordinarietà. Non lesina sui lati oscuri, sulle rigidità della burocrazia, e sui dolori che inevitabilmente tutti i soggetti coinvolti si portano dietro, ma apre con coraggio (e con un ottimismo forse fuori misura, ma cinematograficamente prevedibile e in fondo apprezzabile) un orizzonte di speranza.
Pupille – In mani sicure, la trama
Il piccolo Théo viene partorito il 26 settembre da Claire, studentessa ventunenne che, nella consapevolezza di non poterlo crescere e amare come vorrebbe, sceglie di darlo in adozione rimanendo nell’anonimato. Secondo la legge francese la ragazza ha due mesi di tempo per tornare sui suoi passi. Al termine di tale scadenza il bambino diventa a tutti gli effetti adottabile.
Nel lungo percorso che porterà Théo tra le braccia di Alice (Élodie Bouchez) entreranno in gioco diverse figure professionali, tra cui assistenti sociali, operatori familiari e psicologi. Tutti hanno un solo obiettivo, necessario e ambizioso, che è dare al piccolo il miglior futuro possibile.

L’adozione, un innesto d’amore
Pupille – In mani sicure è, innanzitutto, un racconto che sceglie di trattare il tema dell’adozione con un realismo che riesce a essere sia crudo che consolatorio. Nel guardare a questo percorso con ammirazione la regista, autrice anche della sceneggiatura, delinea le differenze e le difficoltà dell’essere genitori adottivi, condizione che richiede qualcosa in più rispetto all’essere genitori biologici.
Chi si trova a proporsi per l’adozione è chiamato a dimostrare di essere una persona serena, risolta, che ha “bonificato” i campi del suo passato. Una maturità necessaria per prendersi cura di un bambino che ha inevitabilmente già vissuto un distacco, ma che in realtà, a ben ragionare, dovrebbe essere un prerequisito sempre, anche per chi sceglie di avere un figlio naturalmente.
A un certo punto la sceneggiatura suggerisce un’immagine precisa che restituisce la nascita di una famiglia di questo tipo. Non è un parto, dice l’assistente sociale, ma un innesto. Questo nuovo nucleo, infatti, nasce dall’incontro di due individui biologicamente diversi, che però arriveranno a costruire un legame raro, che in pochi possono davvero sperimentare.
Pupille – In mani sicure, i personaggi
Uno degli aspetti più interessanti del film è la sua coralità. Jeanne Herry attraverso la storia di Théo riesce a tratteggiare tutte le personalità che vengono chiamate in causa quando un bambino è in cerca di una famiglia.
La prima figura che si occupa di preservare il benessere del bambino, e non solo, è l’assistente sociale Mathilde. La donna è l’unica a entrare in contatto con Claire e il suo obiettivo è far sì che la ragazza compia la sua scelta in piena consapevolezza, e in totale libertà. Clotilde Mollet dà vita a una donna integra, pacata, mai giudicante, capace di accogliere e rassicurare.
Arriva poi Karine, educatrice specializzata, che si occupa dell’affido temporaneo e dell’inserimento del bambino nella sua nuova famiglia. Attenta, determinata e appassionata, ha una curiosa ossessione per le caramelle gommose ed è lei a scegliere Jean come figura a cui affidare le cure di Théo nei due mesi in cui la madre potrebbe reclamare la sua custodia.
Jean, interpretato da Gilles Lellouche, è un operatore familiare, impegnato in particolar modo con i giovani. Ospita, per brevi periodi di tempo, ragazzi e bambini che sono alla ricerca di una collocazione definitiva, e che spesso vivono situazioni di disagio. All’inizio del film, dopo un’esperienza negativa, lo vediamo sfiduciato e dubbioso del suo lavoro, e della possibilità di aiutare davvero questi bambini. Théo, nei due mesi in cui sarà con lui, lo rimetterà in pista.
Se da un lato c’è chi si occupa direttamente del bambino, dall’altro c’è chi si prodiga alla ricerca della famiglia giusta a cui destinarlo. Lydie (Olivia Côte), si occupa, infatti, di valutare le coppie (ma non solo) che chiedono di adottare un bambino. Il suo è un ruolo cruciale, spesso difficile, perché è costretta a mettere di fronte alla verità uomini e donne che, per un’umana frustrazione e per un forte desiderio, non sono spesso in grado di ascoltarla. Herry sottolinea anche la responsabilità di Lydie che, come afferma a un certo punto del film, deve scegliere sulla base di osservazioni soggettive, e intuizioni, da cui però dipende il futuro di un minore.

Alice, un percorso di crescita
Il personaggio di Alice è quello, per giuste ragioni, più approfondito tra tutti. Jeanne Herry ci permette di osservare la futura madre di Théo in fasi diverse della sua vita, lontane cronologicamente ma non solo. Prima la vediamo in coppia, poi single, con le difficoltà di adozione che questo comporta. La vediamo poi cambiare lavoro e avvicinarsi con entusiasmo e passione al mondo della disabilità.
Gli anni passano, le possibilità di fatto diminuiscono, ma Alice sembra rafforzarsi e aprirsi sempre un po’ di più alla vita. Si percepisce un cambiamento in lei, nella progressiva serenità con cui affronta gli incontri con Lydie, così come nella sincerità con cui palesa goffamente la sua paura quando il suo sogno incredibilmente sta per realizzarsi.
Per marcare con evidenza tale percorso di crescita la regista si serve di due scene parallele (il pitone e l’imprevisto a teatro), apparentemente casuali nella trama, ma efficaci nel raccontare la sua evoluzione. Alice riesce, infatti, con un costante lavoro su sé stessa, a far sua quella capacità di adattamento imprescindibile per essere un buon genitore adottivo.
In conclusione
Pupille – In mani sicure è un film che, con un taglio quasi documentaristico sul processo di adozione, riesce a commuovere, bilanciando gli aspetti burocratici necessari al racconto con le inevitabili ricadute emotive che toccano tutte le professionalità che entrano in gioco.
Jeanne Herry, alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, sceglie di dare luce a una scelta di vita che richiede a chi la compie pazienza, attesa, e capacità di adattamento, ma che ha nella sua realizzazione qualcosa di magico. Un aspetto affascinante è la centralità del bambino che la regista riesce a restituire sia attraverso la macchina da presa (con moltissimi primi piani), che con la sceneggiatura, piena di dialoghi/monologhi rivolti direttamente al piccolo Thèo.
Infine, la regista non dimentica di dare risalto a chi per mestiere ha scelto di accompagnare e prendersi cura di chi si trova nella sua vita in un momento di vulnerabilità. Che siano donne che sentono di non poter essere madri in quel momento, di bambini soli o futuri genitori, il film ci mostra una rete di supporto che, anche se tenuta insieme da una burocrazia che spesso sembra inadeguata, è fatta di teste che ragionano e cuori capaci di commuoversi e lavorare fianco a fianco, avendo come faro unico il benessere dell’altro.
Pupille – In mani sicure è certamente un film che vi consigliamo di recuperare, anche solo per osservare da vicino un contesto spesso sottovalutato, complesso, ma di immenso valore.